Industria automotive, la leadership del futuro si giocherà sul software

Qualche giorno fa, durante il CES, ho partecipato a una conferenza stampa online indetta da Stellantis, dove il CEO Carlos Tavares rispondeva alle domande dei giornalisti.

La notizia del giorno era l’accordo pluriennale Tra Stellantis e Amazon, che coinvolge Amazon Devices, Amazon Web Services (AWS) e Amazon Last Mile: le società collaboreranno per implementare la tecnologia e l’esperienza software di Amazon in tutta l’organizzazione di Stellantis e il processo coinvolgerà le fasi di sviluppo del veicolo, la costruzione di esperienze connesse a bordo delle auto, ma anche e soprattutto la formazione della prossima generazione di ingegneri del software automobilistico. (volendo, basta fare click sul link in bio per leggere il pezzo in cui ne parlo sul Corriere)

Essendo lì per il Corriere, avevo la possibilità di fare domande e ho chiesto “Come influisce la nuova partnership con Amazon sulla road map di Stellantis?”, ma anche se e come l’entrata in scena nell’industria automotive di nuovi player come Sony, Amazon e sembra un domani anche Apple influenzi le strategie e la visione del gruppo.

In inglese avevo tradotto il verbo “influenzare” con “ to affect”, e ho avuto l’impressione che la cosa a Tavares non sia piaciuta affatto: «Questa domanda da sola richiederebbe un paio d’ore per rispondere» – ha detto infatti l’AD, che poi ha insistito a lungo sul fatto che Amazon per Stellantis è solo un “abilitatore” della strategia tecnologica e di business, e che l’accordo è estremamente “bilanciato” da un punto di vista finanziario.

Per sottolineare ancore di più l’indipendenza del gruppo dal gigante tech (peraltro dandomi un po’ l’impressione di mettere le mani avanti), Tavares ha poi completato la sua risposta dicendo che «Stiamo diventando una Automotive-Tech Company perché lo abbiamo deciso noi, nessuno ci “influenza”. Andiamo avanti nel mettere in pratica questa strategia, con l’aiuto di vari abilitatori, perché crediamo sia questo il modo di compiere la nostra missione, che è ampliare (Tavares dice “magnify”) la freedom of mobility che offriamo ai nostri clienti».

Al netto della posizione espressa con forza dll’AD, che comunque è rivoluzionaria se solo si pensa a cos’erano FCA e PSA prima di fondersi in Stellantis meno di un anno fa, c’è una cosa importante da rilevare: la partnership con Amazon, rinnovata e sensibilmente ampliata, conferma ancora una volta che, nei prossimi anni, sarà il software e non l’hardware al centro della competizione tra costruttori di automobili. 

A superare sano e salvo la rivoluzione in corso sarà solo chi avrà saputo cambiare radicalmente il proprio core business e aggiornare le proprie competenze, disegnando al contempo nuove alleanze e stabilendo nuovi equilibri con player provenienti da altre industrie, prima fra tutte quella del tech.

John Deere 8R, il trattore autonomo

Se qualcuno dovesse chiedermi quale sia l’innovazione più inattesa e intrigante vista al CES 2022, non avrei difficoltà a rispondere “Il trattore autonomo John Deere 8R”.

Un gigante da 18 tonnellate che se ne scorrazza tranquillo lungo gli sterminati campi coltivati americani, grazie a una combinazione tra telecamere stereo (cioè che replicano la visione umana), Intelligenza artificiale, tecnologia GPS, connessione mobile, sistemi per la semina ad alta precisione.

Un pezzo del futuro di un settore, l’agricoltura, ad altissima richiesta di innovazione, sempre in cerca di soluzioni hi-tech orientate a risolvere tre problemi principali: ridurre la fatica degli agricoltori, aumentare la produttività dei terreni in vista dell’esplosione demografica, ridurre l’impatto ambientale in ogni sua forma.

Qui il pezzo su Corriere Motori

Dal Metaverso alla Metamobilità

Quando l’industria automotive, la robotica e il metaverso si incontrano, nasce la Metamobilità. O almeno così dice Hyundai, che al CES di Las Vegas ha svelato la sua strategia intitolata “Expanding Human Reach”, dove la robotica agirà come mezzo per collegare il mondo virtuale e quello reale, plasmando e trasformando la mobilità del futuro in ogni sua accezione. Compresa quella degli oggetti, per cui Hyundai ha coniato la definizione Mobility of Things (MoT).

L’idea, almeno sulla carta è molto interessante: in un mondo iperconnesso, i robot potrebbero dunque diventare i nostri avatar nel mondo fisico, da guidare a distanza ovunque ci troviamo, una volta entrati nel Metaverso. Facciamo un esempio: vi trovate in viaggio, lontano dalla vostra casa, ma dovete dare da mangiare al gatto; nella visione di Hyundai, un domani potrete accedere a una perfetta copia digitale della vostra casa nel metaverso, dove prendere il controllo di un robot capace nutrire e abbracciare il vostro animale domestico, magari dall’altra parte del mondo.

E se tutto questo può già sembrare incredibile, non è che l’inizio: Hyundai ha infatti presentato anche le sue piattaforme modulari Plug & Drive (PnD che) e Drive & Lift (DnL), soluzioni all-in-one per la Mobility of Things (MoT), che utilizzano sensori LiDar e telecamere per leggere l’ambiente e muoversi in esso. Insieme, esse possono essere utilizzate per rendere mobili (e quindi anche comandabili a distanza tramite il Metaverso) oggetti normalmente inanimati, dai piccoli manufatti, ai mobili.

Hyundai immagina che queste soluzioni vengano utilizzate in futuro ad esempio per agevolare il movimento delle persone con disabilità, per automatizzare la logistica, persino per creare spazi interni riconfigurabili (ad esempio con mobili e sedie che si muovono e spostano per soddisfare ogni necessità).

Non sembra male, e potrebbe essere un uso del Metaverso diverso e molto più utile da quello prospettato da Zuckerberg, che proprio di recente ha riportato in auge questo termine evocando una (per molti versi) agghiacciante versione 3D del suo Facebook.

Staremo a vedere: intanto sarebbe bene che tutti fossimo vigili, il più possibile informati e accorti nell’uso delle nuove tecnologie di cui disponiamo e di quelle che verranno. La tecnologia è uno strumento: a fare la differenza è il modo in cui la mettiamo a frutto, che a sua volta dipende da quali valori ci diamo, quali regole, ma anche e soprattutto da che tipo di società vogliamo diventare, da come ci immaginiamo fra dieci, venti o cinquant’anni.

Leggi l’articolo completo su Italian Tech

Da Eta Beta su Rai Radio1 per commentare il CES 2022

Sabato mattina ripartiva EtaBeta su Rai Radio1 con una puntata dedicata al CES di Las Vegas: evento che amo, ma che anche quest’anno ho preferito seguire a distanza tramite la piattaforma online ovviamente a causa del Covid-19.

Molti i temi affrontati, con ampio spazio dedicato alla nuova mobilità elettrica e iper tecnologica (ormai questione centrale alla kermesse), alla metàmobilità, al metaverso e, inevitabilmente, ai gadget tech di ogni tipo.

Una buona parte del tempo è stata dedicata anche a rispondere ai molti commenti preoccupati (e un po’ neo-luddisti) ricevuti prima sui social (quando @maxcerof ha annunciato la puntata) e live durante la trasmissione. Commenti peraltro inviati – lo ricordiamo – utilizzando quelle stesse tecnologie che essi hanno voluto criticare.

Insomma, è stato divertente, e se volete riascoltare la trasmissione, potete farlo recuperando la puntata sulla nuova app Raiplay.

La tecnologia “po esse fero e po esse piuma”

Domani sarò ospite di Eta Beta (dalle 11.30) per parlare del CES di Las Vegas. Nel presentare su Linkedin la puntata, Massimo Cerofolini inizia scrivendo: “Prepariamoci. Presto avremo una copia virtuale di noi stessi che si muove nei nuovi paesaggi digitali del Metaverso”. I commenti preoccupati che il suo post ha generato, mi hanno spinto a condividere nei commenti le seguenti osservazioni.

Nota bene: “prepariamoci”, come scrive Massimo Cerofolini, non significa “alziamo barricate contro il progresso disumanizzante, diamo fuoco ai server dei big tech, scendiamo in piazza contro il Metaverso, e dove andremo a finire signora mia” ecc. ecc, come a qualcuno piacerà sicuramente pensare.

Significa piuttosto “restiamo consapevoli, informati, aggiornati”. Perché il progresso tecnologico è inarrestabile, i cambiamenti arrivano e arriveranno che noi lo si voglia o no, e se davvero vogliamo restare umani, e vogliamo che le innovazioni siano “umano-centriche”, di questo progresso dobbiamo essere parte attiva e consapevole.

La tecnologia in sé non è il problema. Il problema è quali obiettivi ci vogliamo dare come specie, quale futuro vogliamo costruire come umanità. Una volta stabilito questo, insieme, allora ogni strumento, tecnologico e non, potrà essere asservito a perseguire gli obiettivi. Se invece non lo facciamo, allora saranno gli strumenti che usiamo a plasmare noi e la nostra società in modi imprevedibili, e la colpa sarà solo nostra.

La realtà virtuale (il Metaverso a cui consente di accedere), ad esempio, “po esse fero e po esse piuma”, può servire ad espandere le nostre percezioni e – scopriamo dal CES2022 – forse in futuro ci consentirà di gestire robot a distanza come fossero avatar nel mondo fisico. Oppure, al contrario, potrebbe essere utilizzata per isolarci, manipolarci e controllarci come una versione sotto steroidi del 1984 di Orwell.

Quale delle due ipotesi prenderà infine forma, è un problema culturale, sociale e politico, quindi squisitamente nostro. Di tutti. Ed è ora, oggi, che dobbiamo esigere come comunità di poter scegliere, di poter indirizzare l’uso di queste tecnologie (oggi definito da pochi oligarchi miliardari) verso il bene. Prima che sia troppo tardi.

Il resto sono chiacchiere.

Intelligenza Artificiale, la “terza via” di Garri Kasparov

Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta su Wired Magazine n.85 del 2018. La ripropongo oggi, dopo aver citato la posizione di Kasparov in un mio intervento sul futuro dell’Intelligenza artificiale al Rewriters Fest di Eugenia Romanelli, per recuperare le affermazioni del campioni di scacchi, a mio avviso ancora incredibilmente attuali e utili.

Freddo, determinato, implacabile nella logica dei suoi ragionamenti: quando parla, Garri Kasparov guarda fisso negli occhi il suo interlocutore, lo scruta, ne studia movimenti e reazioni, quasi si stesse preparando ad anticiparne le mosse.

Il “più grande campione di scacchi di tutti i tempi” si è ritirato dalle competizioni da anni, ma ogni suo gesto e parola rivelano subito come il nobile gioco sia ancora al centro di un’esistenza unica. Di più: come spiega egli stesso, gli scacchi hanno forgiato il suo carattere e influenzato in maniera determinante la sua visione del mondo, pervasa da una severa e disciplinata oggettività. 

Kasparov riconduce alla scacchiera, alle sue regole ferree, agli schemi di gioco che sono al contempo trionfo di logica e creatività, ogni suo ragionamento che così semplifica, scompone e chiarisce. Come quando affronta, nel suo libro intitolato “Deep Thinking”, la questione vitale dell’intelligenza artificiale e di come questa influenzerà il futuro dell’umanità.

E’ uno splendido paradosso: colui che oggi si presenta come “evangelist” dell’IA, vent’anni fa fu protagonista di ciò che passò alla storia come la prima grande sfida tra uomo e macchina. Allora paladino dell’umanità, campione imbattibile da almeno 11 anni, Kasparov sedette alla scacchiera per confrontarsi con Deep Blue, la macchina creata da IBM per batterlo sul suo stesso campo e dimostrare al mondo il proprio potenziale tecnologico.

Tutti ricordano che Kasparov perse la prima partita quel 10 febbraio del 1996, forse perché la stampa internazionale diede al fatto enorme risalto, riconoscendo in esso una pietra miliare nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Pochi sanno invece che il campione di scacchi vinse tre e pareggiò due delle partite seguenti, battendo alla fine Deep Blue per 4 a 2;  che gli accordi con IBM gli impedirono di prepararsi agli scontri studiando gli schemi di gioco del suo avversario elettronico; che nella prima partita il sistema si bloccò e dovette essere riavviato diverse volte; che, insomma, le condizioni in cui prese forma la storica sconfitta furono abbastanza “singolari”. E, ancora, che l’anno dopo ci fu una rivincita, dove Kasparov perse definitivamente al meglio delle sei partite contro la versione aggiornata del suo avversario elettronico. 

Quel che è certo, è che da quel momento in poi la sua vita non fu più la stessa: dopo il fatale incontro con Deep Blue, Garri restò il più forte di tutti gli umani ancora per diverso tempo, ma quella sonora e inattesa batosta attrasse la sua attenzione sulla rivoluzione tecnologica in corso, facendone negli anni un acuto ed equilibrato osservatore.

La parabola dell’uomo si rispecchia nella struttura dei suoi scritti sull’argomento: il saggio “Deep Thinking” parte infatti dalla rievocazione dello storico match Kasparov – Deep Blue, rivelando retroscena inediti e ribadendo il ruolo che negli anni gli scacchi hanno rivestito come perfetta palestra per l’addestramento delle macchine. Poi la visione si allarga, il punto di vista si innalza, proponendo un approccio originale e inedito alla questione dell’intelligenza artificiale e di come cambierà le nostre vite. 

Lucida, oggettiva, forte di una logica incalzante, la visione dell’ex campione di scacchi si pone al centro di ogni ragionamento, dove resta equidistante tanto dal fanatismo entusiasta quanto dal catastrofismo oscurantista. È lì che prende forma, assennata e condivisibile, la “terza via” di Garri Kasparov, secondo il quale «l’IA è semplicemente uno strumento che, come tale, richiede un approccio che non deve essere religioso o estremistico. Ogni tecnologia può aiutare o danneggiare gli essere umani: dipende da ciò che essi decidono di farne». 

Da icona dello scontro uomo – macchina a “evangelist” dell’intelligenza artificiale. Quando e perché ha cambiato idea?

«Una delle principali ragioni per cui sono stato campione del mondo di scacchi per vent’anni è che sono sempre rimasto obiettivo. Se vuoi essere il più forte, devi essere bravo a valutare con obiettività la situazione in cui ti trovi. Quando ho perso contro Deep Blue, ovviamente ero arrabbiato e volevo la mia rivincita. Poi però, con il tempo, mi sono reso conto che quello era l’inizio di una nuova era, e che presto le macchine avrebbero conquistato sempre più spazi di utilizzo, quindi non aveva alcun senso opporsi al progresso e combatterle. Senza contare che è proprio grazie agli scacchi, il territorio dove ormai da decenni si allenano le intelligenze artificiali, che ho compreso la verità».

E quale sarebbe?

«Che l’intelligenza artificiale non ci salverà né distruggerà: il futuro dell’umanità dipende dalla collaborazione tra uomo e macchina».

Come deve avvenire questa collaborazione?

«Nel mio ragionamento, che nasce ovviamente osservando la sperimentazione basata sul gioco degli scacchi, quando si mettono assieme un essere umano e un’intelligenza artificiale per farli collaborare, più importante delle rispettive abilità è l’efficienza del processo con cui essi si relazionano. Uno scacchista di medie capacità e una macchina, uniti da un buon processo, sconfiggono sia un computer più forte di entrambi, sia un campione di scacchi in coppia con un supercomputer quando questi collaborano in virtù di un processo meno efficiente». 

 È la cosiddetta “Legge di Kasparov”…

«Il senso è questo: perché la collaborazione uomo – macchina abbia successo, la persona coinvolta non deve necessariamente essere un campione, ma deve essere colui che possiede le competenze specifiche necessarie a compensare le mancanze nella macchina in quel dato momento, cosa che varia a seconda del settore in cui si opera, del contesto e del compito specifico da eseguire. Le intelligenze artificiali non saranno mai indipendenti al cento per cento, lasciando sempre lo spazio necessario agli esseri umani per avere un ruolo fondamentale: fare le domande giuste, creare framework efficienti nonché definire compiti e gli obiettivi».

Da come la descrive, il talento umano sembra quasi essere un ostacolo all’interazione tra uomo e IA.

«Quello che serve è una profonda comprensione dei propri limiti oltre che dei propri pregi, tale da evitare una inutile competizione con la macchina o, peggio, la sovrapposizione tra le diverse capacità. È una grande occasione per liberare la nostra creatività: lasciando alla macchina altri compiti che sa fare meglio di noi, possiamo liberare il nostro potenziale e guardare oltre».

Quindi non dobbiamo temere le macchine?

«Ciò che ci aspetta può apparire spaventoso o estremamente affascinante: per me è semplicemente fantastico, perché credo che le IA potranno aiutarci a realizzare i nostri sogni più ambiziosi. Lo faranno liberandoci da compiti gravosi e ripetitivi mentre immaginiamo e progettiamo cose più grandi. O, ancora, consentendoci di riprendere in mano imprese come l’esplorazione spaziale, che avevamo abbandonato perché troppo rischiose».

Questo vale anche per le aziende?

«Qualsiasi impresa che sappia e voglia guardare al futuro non può fare a meno di includere soluzioni basate su IA nella nella propria strategia. Quale che sia il settore industriale in cui essa opera, le opportunità di crescita ed evoluzione sono illimitate».

E le sembra che i manager comprendano questa necessità?

«Non ancora, ma capisco il loro disorientamento: negli ultimi anni si sono moltiplicati i messaggi distopici che parlano di un futuro dove le macchine ci minacciano e attentano alla nostra vita, influenzandone il giudizio. Per me la questione è molto semplice: l’intelligenza artificiale non è la salvezza o la soluzione a tutti i nostri problemi, né il vaso di Pandora scoperchiando il quale scateneremo la fine dei giorni.  È solo ciò che sapremo farne». 

Fin dove pensa che si spingerà questa collaborazione che descrive tra uomo e macchina? Alla fine ci fonderemo con esse come sostengono alcuni?

«Già oggi, la robotica con le sue protesi e i trend della ricerca scientifica ci suggeriscono che un giorno potremmo essere in grado di aumentare le nostre abilità fisiche grazie alle macchine. Credo che ciò che ci rende umani non potrà essere mai replicato, perché non abbiamo compreso come funziona il cervello umano, ma mi sento di accogliere con favore tutto ciò che ci renderà più forti, più veloci e più capaci di fare quello che l’umanità sa fare meglio, cioè continuare a esplorare ed espandersi, magari proprio nello spazio». 

Riconoscere la forma del gelo

È possibile “vedere” il gelo? Riconoscerne la forma, distinguerne i contorni come se fosse un luogo familiare, oppure il volto di un amore perduto? E che forma hanno il vento freddo e la neve che esso solleva, sferza e tortura ora in questa, ora in quella direzione?

Qui in Lapponia dove sono adesso, a nord di tutto ciò che per me significava Nord, nel buio e nel silenzio di una notte a 15 gradi sotto zero, io quella forma la vedo, la avverto mutare mentre letale mi avvolge, cancella i miei sensi, mi annienta. Del resto, ho solo la camicia addosso, ma avevo bisogno di capire. Di sentire. Di sapere.

Se allungo il braccio, se tendo la mano e le dita, le sento attraversare qualcosa di denso, tangibile, concretamente reale. Lo vedo il freddo, ma posso anche toccarlo, almeno finché non inizia a strappare via il tatto dalle dita nude, improvvisamente anchilosate e inutili.

E poi lo sento, il freddo, quando si rivolge a me assordandomi con un silenzio sovrumano, insostenibile, immobilizzante. Un vuoto senza appello in cui si riesce solo a sentirsi vivere. Finché dura. Mentre scorrono i secondi.

È notte. Tutto è fermo. Congelato, è il caso di dire. È notte, tutto è freddo, inerte, bellissimo.

Finalmente, qualcosa che so riconoscere, che parla la mia stessa lingua, a cui abbandonarmi senza remore.

La luna intanto mi guarda. Luminosa, sembra quasi sorridere.
freddo

Via da Las Vegas

Il fumo si alza a piccole volute. Dal basso, da una sigaretta di cui ormai resta quasi solo il filtro. Appesa alle dita di una mano, la sinistra, che ondeggia nel vuoto, quasi come appartenesse a un altro corpo.

La destra invece resta aggrappata alla grande leva, come fosse l’estremo lembo di terra prima del precipizio. L’ultima speranza a cui aggrapparsi. L’illusione del cambiamento, della risoluzione improvvisa di ogni problema, dello scioglimento di ogni dolore.
Di fronte, un’enorme slot machine, una montagna di luci, colori e suoni che ipnotizza, ottunde, stupisce. Che promette denaro senza mai darne. Suggerisce un futuro che non si avvera.

Un dollaro dopo l’altro, la donna strattona la leva come si fa con chi non vuole sentire ragioni, comprendere o perdonare. Fissa lo schermo enorme di fronte a sé con occhi vuoti, oltre speranza e disperazione, accecati dall’abitudine. Pieni di sonno.

Sono le quattro del mattino. L’odore acre della moquette vecchia e lisa, sempre la stessa ovunque nei casinò di tutta la città, ti raschia in gola insieme con l’odore rancido delle sigarette spente. “What happens in Vegas, stays in Vegas”, si dice. Così, nella nazione dove in strada non si può fumare ma ci si può ubriacare a patto che si nasconda la bottiglia in una busta, nei casinò tutto è permesso. Tranne forse vincere davvero.

Seduto in angolo, osservo la scena: ho cambiato albergo per le ultime due notti da trascorrere nella città durante il CES, e ho imparato a mie spese perché tutto sommato costasse poco. Allo stesso tempo dignitoso e decadente, tutto sommato pulito e frequentato persino da famiglie con bimbi piccoli, con le sue slot machine, le inservienti sfatte eppure semi scoperte, le camere da pensione vestita a festa e il bagno da Bates Motel: in ogni minimo dettaglio, l’albergo che ho scelto rappresenta in pieno questa città senza senso strappata al deserto, nata per ospitare il gioco d’azzardo, avvolta nella disperazione mascherata da sogno americano.

Terra di nessuno, sede di un carnevale permanente e insostenibile, è simbolo del capovolgimento, del sovvertimento dei valori, dell’abbandono temporaneo e liberatorio di ogni regola e convenzione. Terra fertile per ogni eccesso a cui abbandonarsi prima di tornare in sé e rigenerarsi, rientrare nella vita di tutti i giorni, riprendere il proprio viaggio.

Insonne, devastato dal jet-lag, dall’intervistare e scrivere, dall’interminabile vagabondare per la fiera dell’elettronica di consumo più grande al mondo, osservo la varia umanità che gioca imperterrita con l’approssimarsi dell’alba, vestita nei modi più improbabili e variopinti, mentre si atteggia come chi è nel bel mezzo del big party, si sente larger than life, è a un passo dai big money. Sembra un film di Tarantino.

Fuori una luna piena, fredda e spietata, si erge alta sul deserto del Nevada, sulle finte Statue delle Libertà e Torri Eiffel, sui giochi d’acqua a tempo di musica, e sugli innumerevoli homeless nelle strade, dove puoi trovarli in cerca di riparo e monetine quasi dietro ogni angolo.

Cammino nel freddo con in bocca un sapore amaro, metallico. Me lo lascia il contrasto tra questa povertà assoluta, priva di qualsiasi speranza, e la grandeur fatta di colori accecanti.

Sono le sei del mattino, ormai si fa giorno ed io alla fine capisco: Las Vegas non è altro che un purgatorio dove ognuno vive una diversa espiazione. Un non luogo dove si paga per tutto, anche per soffrire.

Il sogno americano da quale non riusciamo più a svegliarci.

“Scanto” di Natale

È stata una lunga settimana di un lungo mese di un lungo anno. Arrivo a casa, mi siedo e inizio a tirare un sospiro di sollievo che però mi si strozza in gola. Le mani dentro lo zaino, mi accorgo che non ho con me il MacBook Pro.

Ci vuole qualche secondo e poi capisco: l’ho lasciato sul treno dal quale sono appena sceso alla fine di una lunga giornata di una lunga settimana di un lungo anno.

Chiamo l’assistenza di Italo per €0,15 alla risposta e €1,50 al minuto. Mi dicono che non possono far nulla, che non possono chiamare il capotreno, che possono solo segnalare lo smarrimento al personale della stazione di Milano verso la quale – sostiene la tizia del call center – è diretto il treno da cui sono sceso.

5 euro per darmela in tasca.

C’era una cena e decido di andarci. Mentre sono in macchina per raggiungere il locale, provo a richiamare Italo e a perorare la mia causa spiegando che sono un giornalista, che dentro il computer ho anche cose preziose che mi servono. Nulla, non si può fare nulla.

6 Euro.

Arrivo davanti al locale e mi viene l’idea di guardare sulla app di Italo per vedere a che punto è quello da cui sono sceso. È così che scopro che il treno non è mai ripartito ma è rimasto in stazione. Richiamo Italo per avere conferma.

4 euro. Credito esaurito.

Impreco con decisione, mollo tutto e parto in direzione di Termini. Mollo la macchina a metà strada e ci arrivo in metro. Ovviamente non c’è nessuno di Italo. Chiedo a chiunque incontri ma nessuno sa nulla. Il personale di Italo, che siano controllori o addetti alle pulizie, sembra non esistere o nessuno sa dove si nasconda.

Qualcuno mi segnala una saletta lontanissima che raggiungo senza trovare nessuno. Mentre me ne torno assaporando la sconfitta mi viene un’idea: ci dovrà pur essere un treno di Italo che sta arrivando a quest’ora a Termini, no? Lì ci saranno capotreni e addetti alle pulizie a cui chiedere.

Aspetto. Si fanno le 23 e 30 e vedo il treno arrivare da lontano. Credevo fosse l’ultimo. Sono al binario 18. All’improvviso mi rendo conto che ne è arrivato anche un altro senza che me ne accorgessi. Al binario 1.

“Ma li mortacci…”

Inizio a correre. Non so perché, visto che a questo punto uno dovrebbe valere l’altro. Ma inizio a correre lo stesso. Corro verso il binario 1. Quando arrivo ci saranno mille persone che mi vengono tutte incontro, insieme, tipo falange armata di trolley. Giro la curva senza rallentare scivolando tra la gente e vedo da lontano due ragazzi con le maglie di Italo.

Mentre gli corro incontro vedo che si salutano e uno viene verso di me. Lo lascio passare pensando che non posso tormentarlo a quest’ora e mi dirigo deciso verso l’altro che intanto sta risalendo lungo il treno.

È lontano e rischio di farmelo scappare. Ho le Clark, mi torturano ma corro lo stesso per raggiungerlo prima che sparisca. Corro. Mi sbraccio. lo chiamo. Corro più veloce. Quasi lo raggiungo quando finalmente lui mi sente. Si gira. Con il fiatone, piegato in avanti, sudato fradicio provo a dirgli “senta mi scusi ho lasciato il mio computer sopra il tre…”

“Ma quale il MacBook? Ce l’ho io qui in borsa!”

È stata una lunga settimana di un lungo mese di un lungo anno, e ora io me ne vado a casa.

Non a caso

“Io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore”

Il caso non esiste, nulla accade per caso. Così non mi stupisce che il primo disco che abbia ascoltato in vita mia, contenga una delle canzoni per me più importanti in assoluto – il testamento di Tito – la quale si chiude con una strofa potente, semplice eppure immensa, che ben riassume il senso finale, conclusivo, della relazione con mio padre. Nè mi stupisce il fatto che fu proprio Faber, dopo un’intervista, a regalargli quel vinile che ho consumato e che ancora ricordo interamente a memoria.

Non mi stupisce, ovviamente, perché il caso non esiste.